Da decenni, ormai, si parla di Cambiamento Climatico suscitando, come spesso accade per tematiche complesse, reazioni diametralmente opposte. Chiaramente, negare che il clima cambi con il passare del tempo e per vari motivi, spesso incontrollabili dalle creature che abitano la terra, significa negare l’evidenza storica e recente del vissuto quotidiano. In Piemonte, guardando l’arco alpino o andando a camminare sulle vette, non si può non notare che i ghiacciai di trent’anni fa si sono rimpiccioliti, alcuni sono scomparsi.
In realtà, molti di coloro che negano la spiegazione scientifica che sottende l’espressione Cambiamento Climatico negano non tanto il fenomeno, quanto l’asserzione che la causa di questi cambiamenti così rapidi sia soprattutto lo sviluppo umano, principalmente lo sviluppo industriale iniziato quasi duecento anni fa, che è divenuto nel periodo seguente la seconda guerra mondiale incontrollabile. La magnitudine della crescita industriale ha implicato la crescente perdita di
territorio naturale per attività produttive. La crescita industriale richiede quantità crescenti di acqua per l’estrazione e la trasformazione di risorse, restituendola all’ambiente sempre più inquinata, nonostante le normative ambientali. Dalla scoperta degli usi derivanti da carbon fossile e petrolio, e poi della plastica, abbiamo forse raggiunto l’apice degli impatti negative dell’uomo sulla natura.
E noi? Noi siamo cresciuti in numero, anche se a Torino non sembra, e abbiamo bisogno di sempre più risorse (o almeno così crediamo). La medicina ci aiuta a vivere meglio e più a lungo, quindi necessitiamo di più risorse, per più tempo. E per più tempo abbiamo una crescente impronta ecologica. Anche se non dovunque è cosi.
Queste ineguaglianze influiscono molto su tante problematiche socio-economiche, politiche e ambientali. Per quanto riguarda i cambiamenti climatici, queste devono influire soprattutto su “chi, dove, come, quando e perché” agire in risposta ai fenomeni generati dai cambiamenti. Prima di tutto, come la teoria sullo sviluppo sostenibile definì nei primi anni novanta, del secolo scorso, bisogna agire a livello locale, ma all’interno di piani e strategie a scale più ampie, per favorire l’integrazione di azioni e di reazioni, a partire dalla priorità per la sopravvivenza di tutto il sistema mondo: l’adattamento.
Per questo, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, appena pubblicato dal Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica è importante, ma come tutti gli strumenti di natura legale, è rilevante solo se c’è volontà d’implementazione. La differenza fra questo piano e altri piani settoriali, tuttavia, non è risibile: tutti, ad ogni scala, devono contribuire con le loro azioni (individuali e collettive) alla sua realizzazione. Semplicemente, un piano di azione deve essere azionabile (ruolo del governo) e realizzabile (ruolo del governo, dei cittadini, delle imprese e di tutti i settori, inclusa l’istruzione).
A partire dal 16 Febbraio 2023, per 45 giorni, il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici è aperto a consultazione pubblica. Tutti i cittadini, e i soggetti pubblici e privati possono parteciparvi.